Campionati di filosofia: due studenti del Cavalieri partecipano alla selezione regionale
La selezione d’Istituto dei Campionati di filosofia (da quest’anno non si chiamano più Olimpiadi) si è svolta il 9 febbraio; dei diciannove partecipanti, due sono stati scelti per la selezione regionale dello scorso 16 marzo. I candidati avevano la possibilità di scegliere tra quattro tracce di diversi ambiti: teoretico, etico, politico ed estetico. Pubblichiamo i temi di Alexia Giorla e Arturo Palmeri
Fin dal suo avvento, la fotografia è stata riconosciuta e accolta come strumento portatore di una netta rivoluzione culturale. Essa si è introdotta nella vita dell’uomo sovvertendo impetuosamente la percezione che quest’ultimo aveva avuto di sé stesso e della realtà esterna fino a quel momento. La sua affermazione come forma artistica parallela all’arte figurativa difatti, suscitò l’inquietudine e gli interrogativi di numerosissimi intellettuali, i quali, sostanzialmente, si focalizzarono sul medesimo punto: può definirsi “arte” una forma perfetta e scientifica rappresentazione della realtà?
Dove si trova l’elemento artistico in questa assoluta e pedissequa riproduzione?
Ci si ritrovò, dunque, di fronte alla necessità di ridefinire l’idea di arte e di ciò che essa può e deve veicolare; la problematizzazione non stava tanto nel mezzo attraverso il quale l’arte opera e si manifesta, quanto nel suo prodotto finale, nei suoi frutti. Se nei secoli precedenti l’arte figurativa era stata tanto più celebrata ed eternizzata quanto più essa fosse risultata reale nella forma, ora, a metà ottocento la fotografia è al contrario demonizzata per lo stesso motivo. Se la fotografia rappresenta il reale, allora non può essere arte. Il filtro della lente rende la fotografia priva dell’elemento umano che, secondo i detrattori della prima, rende l’arte “arte”.
Ciò che ne risulta è, di conseguenza, una rappresentazione meccanica e asettica del mondo, che per sua natura non può adeguarsi e conformarsi all’altezza delle presentazione emotiva e spirituale della realtà propria dell’arte. Quest’immediata e radicale presa di posizione è, piuttosto, sintomo di una malcelata e abissale fragilità: la fotografia, a questo punto, riveste il ruolo di catalizzatore nel processo di smascheramento dell’arte e dei costrutti umani legati a essa.
L’arte, infatti, non è difesa dall’uomo tanto come sbocco creativo dell’interiorità umana, quanto come unico terreno, a lui disponibile, sul quale ergersi da Creatore, sul quale manovrare e plasmare la realtà arbitrariamente, appellandosi all’inalienabile diritto alla libertà creativa.
L’entrata in scena della fotografia assume, dunque, i connotati di una vera e propria minaccia dell’indipendenza artistica dell’uomo, il quale si trova improvvisamente davanti all’immagine scientifica della realtà senza la possibilità di interpretarla. La realtà empirica, da sempre concepita come grande fardello, è dall’uomo riconosciuta come proprio ambiente naturale, ma al contempo egli non può trascurare l’incontrastabile e ineludibile tensione all’emancipazione da essa, alla necessità di non accettarla come unico orizzonte e di andare oltre.
L’arte permette di farlo, o perlomeno ne concede la dolce illusione, attraverso l’immaginazione e invenzione, che sono frutto di una capacità mentale ritenuta potenzialmente sconfinata. La fotografia e la sua natura meccanica, al contrario, rinchiudono in anzitutto l’infinità della mente all’interno di confini prospettici rigorosi e, successivamente, ne impediscono la rielaborazione, annientano l’intervento dell’immaginazione.
L’uomo, così, si scopre debole e indifeso, in misura ancora maggiore del previsto e del prevedibile, dal momento che anche le uniche difese che aveva contro la spietata realtà si sono rivelate illusorie e ugualmente fragili. Ma forse ciò che disturbò i pensatori dell’epoca non fu soltanto scoprire l’uomo debole di fronte alla realtà del mondo, ma scoprirlo spaventato da essa, incapace di accettarla. Trovarsi di fronte a una fotografia di una realtà conosciuta significava, per gli uomini contemporanei della scoperta della stessa, trovarsi di fronte al rischio di non riconoscerla e di rigettarla.
Finché l’unica percezione del mondo circostante deriva dalla visione diretta attraverso l’occhio e dall’interpretazione artistica, è ancora possibile rifugiarsi nell’apparente necessità dell’impronta individuale a tal percezione. Fino ad allora, infatti, la consistenza della realtà era dipesa dalla presenza di un Io che la cogliesse e le desse un senso; senza l’uomo e la sua coscienza, la realtà esiste, ma senza connessione, esiste in stasi. La fotografia ribalta e annichilisce anche questa convinzione: la realtà, attraverso la fotografia, acquisisce una nuova possibilità di percezione, che risulta addirittura più veritiera, e la rende, dunque, dinamica pur senza connessioni. Ciò significa che la realtà, infine, non ha alcuna necessità di essere interpretata dall’uomo; una realtà in cui l’uomo non è necessario, appare inevitabilmente inospitale ad esso, una realtà della quale essere spaventato.
E un uomo spaventato dal progresso e minacciato da esso nella sua indipendenza, altro non piò fare se non trovar rifugio nella tradizione e nel conformismo.
Nel XXI secolo, infatti, la fotografia è state riconosciuta come effettiva forma d’arte, dal momento che i dogmi artistici sono stati frantumati e le avanguardie storiche hanno modernizzato non solo l’dea di arte, in senso più esteso, ma soprattuto hanno introdotto una più ampia inclusività nella definizione di genio artistico. Nella fotografia, il genio scaturisce dalla variazione di punto di vista, che si rivela ulteriormente nella sua preponderanza.
Al netto di una realtà coglibile in modo assolutamente oggettivo, resta pur sempre la possibilità di coglierne la molteplicità, di cogliere la bellezza intrinseca ad essa.
Grazie a ciò è possibile ultimare la sintesi tra arte e fotografia, superando lo scoglio della necessità e dell’utilità e focalizzandosi su quello che è il reale potere sconfinato dell’uomo: la creatività e la libertà nel professare la stessa.
Alexia Giorla, 5B classico
Chi pensa che Kant abbia gioito nel rilevare che la metafisica non è una scienza e dunque non può dare risposte certe alle domande che le vengono poste, pensa molto male. Negare una risposta non serve affatto a negare anche la domanda e così concludere che la metafisica non possa rispondere alle esigenze conoscitive dell’uomo, non tolga di mezzo il suo bisogno esistenziale di dare un senso alla propria vita. E Kant, questo, è il primo a dirlo: fare metafisica è uno slancio innegabile e inevitabile della natura umana. E se davvero fosse rimasto appagato dalle conclusioni della sua prima critica, di certo non avrebbe scritto la seconda.
Nella “Critica della Ragion Pratica”, infatti, la morale esiste solo se anche l’anima, la libertà, Dio esistono. Ma ancor più evidente è che l’anima, la libertà, Dio tornano a esistere giustificate dall’esistenza della morale. Non è tanto il metafisico, dunque, a dare senso all’uomo, quanto l’uomo, con la sua moralità, a dare senso al metafisico e, quindi, alla realtà tutta.
Ma questo non basta. Rimane in sottofondo l’eco di un’angoscia inestinguibile che nasce dall’impossibilità di una risposta certa. E, dunque, anche di un senso.
C’è da chiedersi, tuttavia, se sia davvero così; se una risposta, cioè, sia necessaria. C’è da domandarsi se davvero un senso alla propria vita non si possa trovarlo senza sapere se Dio c’è o meno, se l’anima c’è o meno, se il mondo si muove verso un fine oppure no. C’è da capire, insomma, se davvero il senso coincida con la risposta, oppure arrivi molto prima, prima persino della domanda stessa.
Mentre cerco un modo per spiegarmi meglio, mi torna in mente una strana conversazione con una vecchietta sorridente del mio paese. Era pieno autunno, quando l’aria perde le ultime gocce della sua dolcezza, e il cielo abbassava la sua mano pesante sulle nostre teste. Io camminavo verso casa quando, passando vicino al cancello di una casa, sento salutare: “Buongiorno!”
Mi fermo, mi volto, vedo davanti a me il sorriso sdentato di un’anziana signora, dal nome che non ricordo.
Con la spontaneità di una foglia che cade, cominciamo a parlare, lei mi chiede dove stia andando, “a casa” le rispondo, poi mi racconta della sua infanzia, di suo padre e infine della sua vecchiaia senza tempo, che è ormai una lenta attesa della morte. Allora, forse per non farmi paura e forse perché troppo angosciata dalle sue stesse parole, “In fondo”, dice, “Dio ci vuole bene un po’ a tutti. Non è vero?”
“Certo,” le rispondo “Dio forse è proprio l’amore. o l’amore è Dio”.
Ma lei, non soddisfatta dalla mia risposta, attende qualche secondo in silenzio, poi mi chiede: “Ma lei ci crede in Dio?”
“In Dio?” le domando io preso alla sprovvista.
“In Dio, sì, in Dio.”
Io non rispondo subito. Aspetto qualche istante con gli occhi bassi. Poi cominciò.
“Vede” dico “io sono convinto che crederci o non crederci non sia poi così importante.
“lei dice?”
“Sì, dico. Credere o non credere in Dio è provare a indovinare in che modo si comporti il mondo. A me basta sapere che il mondo esiste. Qualcuno ha detto che del mondo si può dubitare, ma poi è arrivato a concludere che qualcosa deve pur esistere; qualcun altro ha spiegato che la realtà è un insieme indeterminato di impressioni ma, se anche fosse così, resta il fatto che qualcosa che suscita queste impressioni c’è. E dunque le cose esistono e a me basta sapere questo.”
“Non la capisco, sa?”
Io corrugo la fronte.
“Sarò più chiaro,” rispondo “glielo prometto. Vede, per trovare un senso alla mia vita non mi serve sapere se Dio ha in progetto per tutti noi, se ci ama, nemmeno se esiste. Mi serve sapere se esiste tutto il resto e che, insieme ad esso, esisto pure io. E’ l’esistenza ciò che importa, è sapere che lei, io, questo cancello, queste nuvole, il cielo dietro di loro esistiamo, e per il fatto di esistere siamo tutti accomunati. Mi segue?”
“Sì, la seguo.”
“Bene. E allora cerchi di capire questa cosa: una volta compreso che le cose esistono e che noi stessi esistiamo, siamo a un passo dal trovare il senso. E il senso sta nel rendersi conto che le cose e noi stessi esistiamo. Non importa sapere il perché, non importa sapere chi ci ha fatti né verso dove si muove il mondo. Noi siamo esistenza cosciente, siamo l’esistenza che prende coscienza di essere esistenza. Qui risiede il senso che cerchiamo, in quest’unico istante in cui realizziamo che tutto esiste. Perché così il tutto trova un senso grazie a noi, grazie al nostro sguardo e alla nostra coscienza. E capito questo, ogni altra domanda è pura curiosità. Dolora, certo, ma pur sempre curiosità. Lei crede in Dio, giusto?”
“Sì, ci credo.”
“Bene, allora io le dico che noi siamo gli occhi di Dio, siamo ciò che gli permette di vedersi e di rimanere incantato della sua esistenza. E se domani dovesse smettere di credere in Dio, mia cara signora, il senso della sua vita le rimarrebbe stretto nelle mani, perché lei non smetterebbe di essere gli occhi dell’esistenza.”
“E quindi Dio mi ama’”, mi chiede lei dopo un po’ di silenzio.
“Se lei lo ama, allora sì, certo, perché lei è anche il suo amore.”
Lei torna ad essere silenziosa. E io penso a quanto fosse brillante la mente di Kant, che aveva capito che non siamo tanto noi a non avere senso senza Dio, ma è piuttosto Dio a non avere senso senza di noi.
Poi però lei alza lo sguardo, lo rivolge a me e mi sorride. Io le sorrido indietro.
“Oh, com’è bello che lei è qui e che ci sono anch’io”, mi sussurra.
“Già, ” le dico “com’è bello…”
Arturo Palmeri, 5B classico